Se la norma incriminatrice di cui all’art. 612 bis c.p. è speciale rispetto a quelle che prevedono reati di minaccia o molestia, non lo è rispetto all’art. 610 c.p., la cui commissione genera non solo il turbamento emotivo occasionale dell’offeso per il riferimento ad un male futuro, ma esclude la sua stessa volontà in atto di determinarsi nella propria attività, d’onde il “quid pluris” di cui all’art. 610 c.p. Non sussiste quindi rapporto di specialità, ma concorso di reati (Cass. pen., sez. V, 07.04.2011, n.20895).

Il delitto di cui all’art. 610 c.p., il cui elemento soggettivo è il dolo specifico, si differenzia da quello di cui all’art. 612 c.p., punibile a titolo di dolo generico, proprio per il contenuto della minaccia e la sua strumentalizzazione; la minaccia, cioè, deve raggiungere una intensità di contenuto da apparire idonea al fine propostosi dall’agente e deve essere usata per costringere il soggetto passivo a tenere il comportamento alternativamente richiesto nel comma 1 di detto articolo. Ne consegue che risponde di violenza privata e non di minaccia colui il quale minacci la vittima costringendola a non uscire di casa al fine sia di farla restare nell’abitazione che di tollerare le sue intemperanze (Cass. pen., sez. I, 28.05.1987).

Il criterio distintivo fra il delitto di violenza privata, di cui all’art. 610 c.p., e quella di minaccia, di cui al successivo art. 612, consiste nel fatto che, mentre nel secondo l’atto intimidatorio è fine a se stesso e per la sussistenza del reato è sufficiente che l’agente eserciti genericamente un’azione intimidatoria, nel primo invece la minaccia (o la violenza fisica) funge da mezzo a fine ed occorre che essa sia diretta a costringere taluno a fare, tollerare od omettere qualcosa (Pretura di Salerno, 13.12.1990).