Integra gli estremi del delitto di esercizio abusivo della professione l’abusivo svolgimento non solo delle attività specificamente elencate come rientranti nei compiti tipici di una determinata categoria professionale, ma anche di quelle “relativamente libere”, se poste in essere in modo continuativo, sistematico e organizzato e se presentate ai terzi come provenienti da professionista qualificato. La condotta abituale ritenuta punibile deve quindi presentare le oggettive apparenze di un legittimo esercizio professionale: solo a questa condizione, in presenza di atti non riservati per sé stessi, si viola il principio della riserva alla professione e, conseguentemente, del legittimo affidamento dei terzi (Nella fattispecie emerge come i soggetti agenti “azzardavano a scandagliare la sfera più intima e nascosta degli adepti e insinuavano atroci sospetti sul loro passato, determinando sconvolgimenti e gravi rischi per la stabilità psichica degli stessi in quanto privi degli strumenti di competenza e professionalità per agire in questo delicatissimo settore”. È evidente come “lo strumento della psicoterapia svolto in maniera sistematica da soggetti privi delle qualità culturali, morali e professionali necessarie sia fuorviante e porti a conseguenze aberranti, come quella di considerare ‘lavoro terapeutico’ un rapporto di natura sessuale”) (Corte d’App. Bari, sez. III, sent. n. 3510/2015).
L’art. 348 cod. pen. è norma penale in bianco perché presuppone l’esistenza di altre norme che integrino il contenuto della stessa, individuando le professioni per le quali è richiesta la speciale abilitazione dello Stato e l’iscrizione in apposito albo. Alla luce della definizione della professione di psicologo contenuta nell’art. 1 della legge n. 56 del 1989 vale una nozione di attività psicoterapeutica teleologicamente orientata che prescinde dalle modalità con cui l’attività si esplica e “richiede che essa abbia come presupposto la diagnosi e come obiettivo la cura di disturbi psichici”. È pertanto sufficiente che l’azione dell’agente, seppur non integrante una delle metodologie proprie della professione psicoterapeutica, incida sulla sfera psichica del paziente con lo scopo di indurne una modificazione, che potrebbe risultare dannosa (A titolo esemplificativo costituisce esercizio abusivo della professione l’attività di un pranoterapeuta che, prima di imporre le mani, intrattenga approfonditi colloqui su aspetti intimi della vita dei pazienti, per diagnosticare problematiche psicologiche eventualmente all’origine dei disturbi da loro lamentati o di chi tratta pazienti affetti da disturbi psicologici (ansia, fobie, depressioni) con colloqui e anamnesi per collegare cause psicologiche e disturbi fisici o con consulenze per problemi caratteriali e relazionali, sostenute da percorsi terapeutici, sedute, colloqui e pratiche ipnotiche o con la rievocazione delle esperienze passate.) (Cass. pen., sez. VI, n. 39339/2017).
La riconducibilità di un’attività nell’ambito di quelle proprie della professione di psicologo può esplicarsi mediante un giudizio non necessariamente fondato su specifici apporti tecnici, bensì su elementi di comune conoscenza, tanto più quando esiste una definizione legislativa dell’attività in esame. Non equivale pertanto all’utilizzo di prove dichiarate inutilizzabili l’uso da parte dei Giudici nella motivazione della sentenza di spunti argomentativi tratti dal parere dell’Ordine degli Psicologi (Cass. pen., sez. VI, n. 39339/2017).